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  • Da dove bisognerebbe partire per pianificare una buona content strategy

    11 Dicembre 2018

    In questa intervista a Francesco Gavatorta, Head of Strategy di Instant Love e docente del Corso Content Now! di Ninja Academy, scopriamo le ragioni per cui un’azienda dovrebbe includere una content strategy nel proprio piano di marketing complessivo, con quali obiettivi e con quali strumenti.

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    Credits: Depositphotos #67853485

    Le premesse di una content strategy efficace

    Quali sono le analisi preliminari che è necessario svolgere prima di pianificare una content strategy? «Solitamente, quando si comincia una fase di analisi si deve tener conto di tre aspetti: chi siamo e cosa abbiamo fatto fino a quel momento, a chi si parlerà e chi sono i competitor che si muovono sul mercato e che possono insidiarci. Entriamo nel dettaglio.L’attività di contenuto ha sempre un inizio, ma capire ciò che è stato “prima” di questo inizio è decisivo per capire che tipo di approccio usare per dare continuità e non sembrare troppo (uso un termine forte) schizofrenici. Ad esempio se fino a ieri la marca ha assunto un tone of voice posato e poco propositivo, un salto troppo marcato potrebbe disorientare i follower. Inoltre, non sempre ciò che è stato “prima” è stato fatto male.
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    Meglio cercare di comprendere bene cosa ha funzionato e cosa no, tarandosi sulle certezze che si hanno a disposizione. Sul “a chi”, tracciare dei profili di buyer personas è utile per avere chiaro a chi ci rivolgiamo, o quale sia il desiderata che vogliamo raggiungere: anche qui, serve lavorare sul pregresso, analizzando quali siano stati i contenuti che hanno performato meglio, in relazione ai profili di chi ascolta. Infine, sui competitor, bisogna fare attenzione a come agiscono, in quanto molte volte si è in grado di tracciare dei comportamenti comuni che aiutano a determinare il perimetro nel quale agiremo. D’altronde, una delle frasi più citate da L’arte della guerra di Sun Tsu è “Se conosci te stesso ma non il nemico, le tue probabilità di vincere e perdere sono uguali”: mai occasione come questa è adatta per ritirarla fuori!». E quali sono le metriche da monitorare? «Dipende dagli obiettivi che ci diamo. Se un contenuto viene creato per sviluppare awareness, allora probabilmente il KPI più corretto da tenere in considerazione è quello del numero di mention che vengono fatte online; se viene sviluppato per veicolare traffico su un sito web, allora il KPI più adatto sarà il volume di accesso al sito. Certamente, bisogna fare attenzione a quelle metriche che magari gonfiano d’orgoglio il Content Marketer ma poco il portafogli dei risultati: le cosiddette vanity metrics, cioè quei dati facilmente misurabili come il numero di fan che però non mostrano la reale bontà del dato o dell’attività svolta (ho incrementato la fan base del mio profilo Instagram di ben 10K utenti, ma sono tutti in target? Magari vendo schiuma da barba e sono tutte signore over 60 senza marito… con tutto il rispetto per le signore over 60 senza marito)».
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    Definizioni utili

    Content Marketing, storytelling, branded content. Sono tutti sinonimi o hanno significati diversi? «Ovviamente non sono sinonimi, anche se sono in qualche maniera correlati. Il Content Marketing è quell’approccio di comunicazione che mette al centro i contenuti come strumento per relazionarsi con gli stakeholders: è applicabile sia al B2B che al B2C e non è certamente perfetto, ma sicuramente può offrire delle soluzioni a tutti i tipi di aziende, dalle PMI alle grandi corporate. Salto alla terza voce, il branded content, che altro non è che un contenuto dove l’azienda recita il ruolo di publisher: nato con lo scopo non di parlare del brand, ma di valori, idee, esperienze, può acquisire forme diverse, dal libro al film, alla canzone, l’importante è che abbia una chiara matrice editoriale. Infine, lo storytelling. Personalmente mi rifaccio alla definizione di storytelling management, cioè una metodologia che pescando dalle tecniche di narrazione influisce sulle dinamiche organizzative e di marketing dell’azienda. In inglese è semplicemente il gesto del raccontare, inteso come condivisione di esperienze, che sono alla base della narrazione. La parola in un certo senso è stata negli ultimi abusata e svuotata della ricchezza di significati che essa rappresentava, venendo calata un po’ in tutte le discussioni e argomentazioni. Probabilmente ne sentiremo parlare ancora per un po’, poi verrà lasciata da parte per la prossima keyword di moda. Quello che però è lo storytelling rimarrà, con tutto ciò che ne concerne».

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    Storytelling, utenti e dipendenti

    In che modo lo storytelling può – anzi deve – seguire il Customer Journey? «Lo storytelling non segue il customer journey, semmai attraverso di esso determina il percorso, seleziona i tourchpoint che servono, aiuta a comprendere come deve essere declinata l’esperienza dell’utente e dove deve condurre. Chiaramente, ogni utente vive attraverso la pianificazione del customer journey un sentiero, che diventa esperienza. E l’esperienza è alla base di ogni storia».
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    Come è possibile coinvolgere i dipendenti in azienda anche nella produzione dei contenuti? «I programmi di employee advocacy sono una delle soluzioni migliori per incentivare la produzione di contenuti, certamente però non è l’unica caso. Ognuno di noi infatti, se ben predisposto, può sviluppare contenuti che parlino della propria azienda e dell’esperienza professionale che in essa si sviluppa. Certo, quando si è soddisfatti si è più propensi forse… E questo non dipende forse solo dal content marketing, quanto dalla capacità dell’azienda di coinvolgere e far star bene i propri dipendenti!».

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    ___ LEGGI ANCHE: Da aziende a media company, il ruolo dello Storytelling e del Content Marketing per le imprese – Intervista ad Alberto Maestri

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