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Daniele Orzati

Storytelling Designer Storyfactory

BIOGRAFIA

Su cosa si basano i miei insegnamenti?

Uno dei principi dello storytelling è quello di veridicità: se la tua narrazione non si basa su elementi di verità non potrai mantenere il prestigio nel tempo. Se questo è vero, se questo principio vale, allora non posso che iniziare con una confessione imbarazzante: il visual storytelling non esiste!, nel senso che è assimilabile allo storytelling stesso. Per un motivo banale: lo storytelling non può non porsi il problema visual. La progettazione di un immaginario precede la produzione delle immagini, e riguarda anche un oggetto puramente testuale. Per trovare spunti, metodi e specificazioni sarebbe allora più corretto parlare di storytelling per il visual, cioè dello specifico apporto che lo storytelling può dare al visual.

Ecco cosa ho scoperto che gli altri non sanno.

Un altro principio ci insegna che lo storytelling non sta fuori, ma dentro: è il meccanismo attraverso il quale l’uomo, e solo l’uomo, struttura semanticamente la realtà. Ed ecco che mi trovo costretto a sfatare un altro mito, quello per cui lo storytelling sia sostanzialmente un trend legato a nuovi media. Certo è anche questo, ma il lato che la luce non illumina è ampio come la sua controparte, ed è da scoprire. Lo storytelling è innanzitutto grammatica del pensiero cosciente: quando mi sveglio, e prendo coscienza di me stesso, ritrovo il mio io… sono un protagonista-eroe che deve compiere un’impresa quotidiana, superando una serie di sfide, combattendo con avversari o avversità, avvalendomi di aiutanti e oggetti magici, conquistando tesori.

Cosa ti propongo di nuovo?

Queste cose le ho prima intuite, poi studiate e infine vissute. E vivendole, attraverso la mia professione, ho imparato a governarle. Ho forgiato strumenti, li ho usati, li ho perfezionati. All’inizio pensavo che lo storytelling fosse creatività con metodo, poi che fosse un metodo creativo. Dopo una serie di progetti ero convinto di aver compreso: lo storytelling è 50% ingegneria e 50% creatività. Oggi mi accorgo – e la misurazione la traggo dall’efficacia dei progetti – che prima della creatività (non più del 20%) ci sono da risolvere vere e proprie equazioni. Le variabili sono tante e per fortuna si è in team, perché – un’altra cosa che ho imparato – difficilmente si potrà accentrare l’intero processo di storytelling design su un’unica persona.

Ti spiego come sono arrivato dove sono oggi.

Vi dicevo che tutto ciò l’ho prima intuito, poi studiato e infine vissuto. Ho avuto la fortuna di incontrare i maestri giusti nei contesti giusti: nell’Osservatorio di Storytelling dell’Università di Pavia, dove curo la Redazione scientifica, e in Storyfactory, la società di cui faccio parte da un lustro – che è anche la prima in Italia a occuparsi specificatamente di corporate storytelling. Decine di progetti l’anno, la maggior parte dei quali con grandi aziende. Ho progettato narrazioni corporate, di prodotto, di persone, di luoghi, di territori, di patrimoni materiali e non. Un know how non così facile da trasmettere (altra spiacevole verità), ma che deve essere trasmesso.

Cosa ho capito di questo mestiere?

Inutile aggiungere ora altre parole, finché rimarrete al di qua della soglia vi appariranno piatte, continue e indifferenziate come uno scorcio d’alto mare. Ma attenzione anche all’al di là della soglia, ogni passo nel mondo straordinario ha conseguenze incalcolabili, ed esige eroi ; )

«Chi è appassionato di fotografia lo sa: ci vogliono cento, mille scatti per salvarne uno buono. E quando poi finalmente abbiamo scelto le foto giuste e le raccogliamo in un album, ci accorgiamo che anche l’ordine nel quale sono disposte fa differenza: una tavolata di gente in festa e poi una strada vuota in montagna vogliono dire una cosa diversa da una strada vuota in montagna e poi una tavolata di gente in festa… E va aggiunto che qualche volta la foto più bella è quella venuta per caso. La scelta, poi l’ordine, poi il caso: in un album di foto, in fondo, ci sta tutto quello che ci sta nella scienza, perché nella scienza, quella buona, ci deve stare tutto quello che sta nella vita. Una scienza che non dice niente di noi è inutile, come un album sbagliato».

Andrea Moro, Parlo dunque sono

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